Ricordando GIANPAOLO BERTO
di Alberto Naccari
- La chiave
La calda giornata agostana trascorse lenta ed assonnata, tra le solite commissioni quotidiane sbrigate tra i dardi infuocati del sole ed i masegni roventi della calle. Le diciotto non giungevano mai, ma ai sei rintocchi dell’orologio giunti dalla Piazza la piccola compagnia era già convenuta ai piedi del ponte di Calle Zitelle Vecchie, al fresco del porticato, in attesa che il Maestro scendesse i due gradini del portone di casa. Difficilmente era puntuale (raramente indossava l’orologio), per cui l’attesa, non troppo lunga, in verità, era già stata messa in preventivo.
Lo avevo lasciato un paio di ore prima dell’alba, dopo una serata trascorsa nello studio-laboratorio di Palazzo Ravagnan, sulla Riva Vena, ed una tarda serata-nottata a chiacchierare e degustare piatti di affettati allo storico Bar Centrale, di fronte al Palazzo Granaio. Quelle della notte erano le ore che preferiva, durante le quali la sua vitalità era soggetta a rigurgiti di vigore. Nel corso della giornata preferiva rimanere a letto per leggere, pensare, scrivere (diceva), ma in realtà, visto l’aspetto rilassato e lo sguardo vivo agli incontri, penso che dormisse per tutto il tempo.
Nelle ore di veglia era un vero vulcano: dipingeva spinto da irrefrenabili pulsioni, insegnava tecniche pittoriche ai convenuti, guidava discussioni punzecchiando gli interlocutori, si faceva accompagnare (non aveva la patente) in varie località venete ed oltre a visitare mostre ed incontrare vecchi amici e colleghi.
Anche la giornata successiva trascorse secondo alcune di queste modalità, e con il solito gruppo di amici/alunni/estimatori era proseguita al solito locale per le solite considerazioni. Eravamo sempre gli ultimi avventori a lasciare i tavolini esterni, lasciatici in custodia dal gestore, che aveva già chiuso il bar da alcune ore, ma quella notte, al momento dei saluti, vedemmo il Maestro farsi serio e preoccupato.
“E adesso cosa faccio, e adesso dove vado, e adesso dove dormo” furono le parole che pronunciò per alcune volte: aveva smarrito, o dimenticato (non lo sapemmo mai) la chiave di casa. Era passato violentemente dalla sua proverbiale sicumera ad uno sconforto non consolabile, rivelando senza pudore la propria fragile umanità. Vederlo in quella condizione ci lasciò disorientati, ma fu per il livore subentrato allo sconforto che ci attivammo e trovammo la soluzione. Uno telefonò ad un amico rodigino che aveva una copia della chiave in questione, pregandolo di consegnarla, in Adria, ad un altro dei nostri, già partito per recuperarla.
Nel più assoluto silenzio lo accompagnai nello studio di Palazzo Ravagnan, dove, quasi in stato di trance, realizzò, in una manciata di minuti, il lavoro che accompagna questo ricordo. Erano le tre del mattino, e tutta l’ansia, rabbia, preoccupazione che prima erano visibili sul suo volto, si erano magicamente trasferite nel quadro che ancora odorava di vernice, restituendogli il suo solito aspetto serafico.
Se la veduta avesse voce, racconterebbe questa storia così come ho fatto io.
- Meccanica quantistica
Spesso lo facevo ridere. Gli piaceva ridere. Ridere scarica le tensioni, mi diceva, e rinsalda i vincoli amicali. Raccontandogli alcuni aneddoti legati alla mia professione, gli riferii come, un giorno, entrando in classe, vidi scritta sulla lavagna la seguente massima: “L’uomo non è di materia. L’uomo è di energia. Lo dice anche Frankenstein”. Non sapevo se ridere pensando alla confusione tra
la creatura di Mary Shelley ed Einstein, oppure all’equivoco linguistico dell’energia elettrica, capace di riportare in vita il mostro. Mi aspettavo una sghignazzata, una di quelle col singulto, che lo caratterizzavano in particolari situazioni, invece rimase serio. Sorprendentemente serio. Poi mi disse che l’anonimo autore della scritta aveva la ragione dalla sua, aprendo il mio sguardo sulla meccanica quantistica, che non conoscevo, a motivare il suo giudizio deciso.
Con grande semplicità, iniziò ad illustrarmi come, la realtà che conosciamo, non sia concreta, ma abbia una natura ondulatoria, vibrazionale. E motivò questa affermazione citando De Broglie, il fisico francese che per questa intuizione aveva ricevuto il premio Nobel per la fisica nel 1929 e lo statunitense Feynman, premiato con il Nobel nel 1965, che questa teoria era riuscito a dimostrare con il famoso esperimento della doppia fenditura.
Rimasi ammirato per le profonde conoscenze dimostrate ed ammaliato alla notizia che ciò che vediamo, in realtà (e mi si conceda il gioco di parole), non è ciò che è, ma ciò che appare ai nostri sensi.
Presi due supporti, mi rappresentò questi concetti con le due opere che vedete. Si tratta di un ponte sul Canal Vena (sempre quello delle Zitelle Vecchie), preso a simbolo in molti dei suoi lavori, realizzato secondo due modalità distinte: la prima, appartenente alla fisica classica, la seconda, interpretando la natura ondulatoria di ciò che chiamiamo Mondo.
- Tutti a scuola
“Senti: ieri ho visto quei tuoi due conoscenti cheuscivano dall’osteria con procedere incerto. Uno era chiaramente avvinazzato e barcollava sulla riva, reggendosi all’altro. Bisogna aiutarli. Bisogna offrire loro una opportunità. Bisogna far capire loro che non esiste solo il lavoro ed il bicchiere. Tu che li conosci da tempo, accompagnali da me domani, e dì loro che desidero incontrarli ed avviarli alla pittura. Dì anche che non voglio nulla in cambio e che procuro tutto io: tele, pennelli, colori.”
Anche in questa occasione rimango sorpreso. Era la prima volta che mi si disvelava questo aspetto della sua poliedrica personalità, che mi spiazza e disarma. Berto come il buon pastore evangelico, penso, pronto ad impegnarsi per redimere il prossimo?
I due, forse per la prima volta nella loro esistenza, quasi invisibili al mondo dei privilegiati, si sentirono al centro dell’attenzione. “Cosa ci sta capitando?”, si saranno chiesti. “C’è qualcuno che si interessa a noi?”. Il loro compiacimento ebbe la meglio su dubbi e perplessità, così, all’ora convenuta, li feci entrare nello studio-laboratorio di Palazzo Ravagnan. Il Maestro, in via eccezionale puntualissimo, aveva già predisposto tutto l’occorrente per quel primo incontro. Seppe metterli a loro agio, li fece rilassare liberandoli di tutte le loro preoccupazioni e li mise al lavoro, guidandoli nella realizzazione dell’opera che state osservando, alla quale contribuì in prima persona.
Prodotto appartenente al genere naif, rappresenta la parte settentrionale del Canal Vena, quella che conduce al Ponte di Vigo, ripresa a volo d’uccello. Non un’immagine fotografica, da cartolina, ma una Chioggia come potrebbe essere stata in un altro tempo o come potrebbe essere in un altro piano di realtà, vista da uno sguardo quasi virginale.
La composizione, realizzata a sei mani, rivela la semplicità quasi disarmante dei suoi due esecutori, accompagnati però da una guida che aveva saputo farsi come loro.
Palazzo Rota delle Sirene
La famiglia Rota, bergamasca di origine, era stata aggregata al Maggior Consiglio di Venezia nel 1685, versando nelle casse della Serenissima una somma di centomila ducati, necessari alle spese di guerra col Turco per il dominio sulla Morea. Acritti all’Albo d’Oro della nobiltà veneta, ebbero accesso alle massime cariche pubbliche nel territorio della Veneta Repubblica, soprattutto nel prosperoso Friuli.
Un Palazzo Rota si trova anche a Chioggia, al centro del Corso, ma viene meglio conosciuto come Palazzo delle Sirene, per gli ornamenti lapidei propri del piano nobile. Ebbene: questo era il sito cittadino che il Maestro prediligeva, e che frequentava fino a tarda notte quasi ogni sera, sedendo ai tavolini dello storico Bar Centrale,ospitato al piano terra del palazzo in questione.
Era la sirena che lo attraeva, affascinava, ammaliava, per tutte le sue valenza simboliche: quelle antiche di dea madre che da e toglie la vita, che guida, guarisce, vede, sente, sa, e quelle medioevali di donna seducente, infida, non affidabile, capace di ammaliare l’uomo col suo canto (e qui citava Dante) e di condurlo alla distruzione, ma anche alla conoscenza assoluta, perché essa, come la
Musa o la Sibilla, sa tutto ciò che è accaduto, accade, accadrà (e qui citava Omero).
Continuavo a chiedermi come facesse a conoscere così tante cose un individuo che non solo non aveva condotto studi regolari, ma che aveva trascorso la propria intera esistenza tra i pennelli ed i colori, intossicando la pelle delle mani con i componenti sintetici dei pigmenti colorati. Appagai questa curiosità quando mi narrò della sua frequentazione con Carlo levi, il suo mentore, e di come lo introdusse nei circoli culturali romani e nei salotti bene della Capitale.
La sirena, come metafora dell’intera esistenza umana, fatta di prove, rischi, successi, sconfitte, è sempre stata presente nei nostri dialoghi, e lo ha ispirato per una delle migliori opere grafiche uscite dalle sue mani.