Tradizioni popolari

IL PENELO
Il penèlo era un mostravento, espressione della più genuina arte tradizionale, che veniva costruito dagli stessi pescatori, i quali con le punte dei coltelli ben affilati o con punteruoli intagliavano il legno, lavorandolo nelle ore di riposo. Ve ne erano di varie misure, sfarzosamente addobbati e di tale complessità e dimensioni da ritenere che alcuni non fossero tenuti in cima all’albero con continuità. Il penèlo del bragozzo chioggiotto era diviso in tre riquadri principali denominati: – sgura di sotto, sgura di mezzo e sgura de peneléto. Nella prima erano rappresentati i Santi Patroni della città, circondati da spade, bandiere, foglie di palma ecc. Nella sgura di mezzo venivano raffigurati tutti gli strumenti della Passione di Gesù: la croce, la scala, la lancia, il gallo sulla colonna, la pertica con la spugna ecc. Le varie aste di sostegno del telaio risultavano in misura sovrabbondante per consentire ai pescatori l’alloggiamento della banderuola e dei contrappesi, che avevano la foggia di uccelli rappresentati nell’atto di sostenere col becco e le ali un disco solare , ed erano dipinti in nero; erano dette “felisse”, da una qualità di colombe conosciute ai pescatori. Nei penèi più eleborati, sul mezzo del lato superiore della sgura del peneléto, poggiava il pupolòto, raffigurato in pose curiose, nell’atto di sostenere su in una sola gamba un’asta munita di banderuola e terminante con una croce. Intorno al penèlo venivano fissate molte bandierine rosse e molte campanelle che tintinnavano continuamente. Nel caso che qualche grave lutto colpisse la famiglia del pescatore, il penèlo veniva trasformato: si toglievano i sonagli, le bandiere e le bandierine vistosamente colorate, le quali erano sostituite con altre di colore nero e bianco. L’uso dei penèi era così radicato nei pescatori chioggiotti, da entrare nei modi di dire: “ti xe come un penèlo”, corrispondeva all’italiano “sei come una banderuola”.

LA PIPA
La prima testimonianza certa dell’esistenza delle pipe in terracotta a Chioggia è datata da un reperto che porta l’iscrizione di una data 1655. Ma senz’altro qualche decennio prima a Chioggia l’attività era già viva. Costruita con l’argilla del fiume Po, la pipa fino alla metà del 600 era un oggetto molto semplice, in terra rossa. Il secondo periodo fino alla metà del 700 vede maggior raffinatezza nella forma con fregi di varia natura e l’introduzione della smaltatura. Il terzo periodo inizia con la metà dell’800. le pipe non vengono più smaltate e la terra, trattata con l’acqua salata assume, una volta cotta, il caratteristico giallo avorio. La lavorazione è accuratissima. Le pipe diventano piccole sculture. La colorazione é forse un vezzo nel periodo della decadenza ma anche, come pensano gli esperti, un accorgimento per evitare di scottarsi tenendo in mano la pipa. Le ricerche testimoniano di grande quantità di scarti di fornace (segno di una produzione locale) trovate per imbonimento degli argini o delle strade. Molte pipe usate sono state trovate anche sul fondo della laguna da pescatori. Esisteva anche la possibilità (ed esiste tutto ora) di rigenerare la pipa di terracotta, impregnata di tabacco. Alcuni muratori trovarono delle pipe sui tetti. Si trattava di pipe già usate, lasciate ai lati degli abbaini, sul coppo di conversa, perché sole e pioggia sciogliessero gli umori del tabacco, consentendo così di riutilizzare la pipa. Indispensabile per la pipa chioggiotta la “canna”, il bocchino di legno. Per gli intenditori non può essere che in legno di marasca (ciliegio). I vecchi fumatori facevano di più: mescolavano al tabacco alcune foglie di marasca tritate. Una raffinatezza. Unica delle pipe in terracotta, quella chioggiotta, ha quasi sempre tre fori sul fondo della caldaia. Gli esperti sostengono che potrebbe trattarsi di un espediente tecnico per evitare che il tabacco otturasse un unico foro. Nel 1765 a Londra, inviati della Serenissima scoprirono della creta che credevano eccezionale. Inviato con tutta cura a Venezia un esemplare e fatto analizzare risultò inferiore alla qualità della creta del Po. I Chioggiotti risposero con orgoglio che avrebbero continuato così come sempre era stato fatto. Alla fine dell’800 costava, a seconda della bellezza, uno o due centesimi. Si vendeva separata dalla “canna”, il bocchino, che costava un centesimo. Un documento del 1891 parla di una produzione di 11.300 pipe al giorno, costruite dalle sei fabbriche esistenti. Lo stesso documento fa anche il calcolo della produzione annua. 4.680.000 pipe. Un dato eccessivo, improbabile, dicono gli studiosi, anche se Chioggia esportava un po’ dappertutto le sue pipe.

 

Particolarmente importante è che la pipa chioggiotta con il suo potere assorbente dà un fumo depurato da catrame e nicotina. Fumare una pipa in terracotta è fumare soltanto tabacco. E’ assodato che nella pipa chioggiotta va fumato un tipo di tabacco che più piace e non soltanto tabacco robusto, probabilmente, i nostri vecchi, se avessero avuto la possibilità non avrebbero sicuramente disdegnato un tacco inglese … La pipa buona, alla prima fumata, non necessita di alcun rodaggio e forma poca crosta, perché essa stessa ha la funzione di una vera e propria crosta dato che il materiale è cotto a temperatura talmente alta da non contenere alcuna traccia di materia organica e combustibile che possa alterare il sapore del fumo, come succede per la pipa di legno

La pipa chioggiotta oggi:

Gli australiani hanno chiesto di vederla e provare a fumarla. Negli U.S.A. per i raffinati è un segno di distinzione. In Europa, svizzeri, tedeschi, ed inglesi e recentemente anche gli spagnoli hanno cominciato a mostrare interesse crescente. La pipa chioggiotta sta ritornando, lentamente, in possesso della fama che ebbe per tre secoli, ai tempi della Serenissima Repubblica Veneziana. Artefice di questa impresa è Giorgio Boscolo, artigiano e artista, l’unica persona a Chioggia che costruisce le pipe così come erano fatte nel 1600.

Dopo il 1945, dice, morto l’ultimo piparo della città non ci fu più nessuno che si preoccupò di conservare la tradizione. Di sicuro, mancò la domanda.

La sigaretta soppresse in poco tempo l’antica usanza chioggiotta della pipa in terracotta.
I magazzini di alcuni tabacchini durarono anni a smaltire le scorte. Chioggia perse comunque una delle sue più storiche tradizioni. Le pipe, certo, si continuavano a fare, ma in altre zone, oggetto solo per pochi amatori. Poi, intorno al 1968, dopo aver fatto decine di lavori, Giorgio Boscolo si innamora della ceramica. Un corso di tre giorni con alcuni amici per capire i segreti della cottura e l’impresa prende il via. Prima con timore, poi con crescente passione. Ho frugato per tutta la città, commenta l’unico piparo ora in attività a Chioggia, trovato vecchi stampi, scoperto intere scatole di pipe nei magazzini o in qualche abitazione, le sue pipe in poco tempo, prendono piede. Non sono solo oggetti, ma pipe pronte per fumare. Però, confessa Boscolo, molte signore ne comperano a mazzi, da sistemare come bouquet di fiori colorati, in un vasetto di ceramica. Qualcuno le usa in serie per appenderle come quadri al muro. Per fumatori o per esteti, la pipa chioggiotta, in poco tempo, ha fatto il giro del mondo. Ne costruisco 5-6 mila all’anno, sostiene Giorgio Boscolo, anche se le richieste sono più elevate. Ma non voglio lavorare di più, mi mancherebbe il tempo di andare in giro a raccogliere i cocci di ceramica sparsi per le terre di Chioggia. Boscolo, in pochi anni, è diventato infatti anche uno dei maggiori studiosi della zona, ha raccolto e catalogato migliaia di pezzi di terracotta e ceramica, i segni, come lui dice, di una civiltà. Adesso cerca di darsi da fare per aprire in città un museo della pipa e della ceramica. Era un’attività che la Serenissima riservava per sé, per i suoi bocalieri (costruttori di bocali). Considerava un’attività minore la fabbricazione delle pipe e l’ha, quindi lasciata senza problemi di perdere la sua egemonia a Chioggia. La città ha, quindi, sempre importato le altre ceramiche. Voglio mettere a disposizione del pubblico la mia collezione, afferma Giorgio Boscolo, se nascerà un museo non ci sarà certo problema per trovare materiale per riempirlo.

GLI EX VOTO E LE TOLELE
Qualche anno fa li rubarono, poi, in circostanze fortunate, li ritrovarono e per evitare nuove sgradite sorprese, oggi sono custoditi in una cappellina quasi invisibile, sul lato destro della chiesa di San Domenico, protetti da una robusta inferriata e da un sofisticato sistema d’allarme. Complici i ladri, quindi, gli ex voto, uno dei più importanti patrimoni storico-artistico di Chioggia, sono oggi praticamente nascosti al grande pubblico; hanno fatto cioè la fine di tante opere d’arte italiane.

Non sono opere del Tintoretto o del Carpaccio, pure ospitate dalla chiesa di San Domenico. ma queste tavolette coloratissime hanno senza dubbio praticamente inestimabile per quello che raccontano, per la testimonianza che portano. La prima di quelle raccolte in San Domenico (ve ne sono ancora, assieme ad opere in argento e ad oggetti preziosi, in altre chiese) è datata 1815, l’ultima risale a qualche decina di anni fa.
Tutte raccontano con un linguaggio schietto, spontaneo, chiaramente naif, però fatto quando questo genere non era di moda, i miracoli di cui la povera gente che le ha donate si sentiva beatificata.

Trattandosi di una città di pescatori prevalgono, chiaramente, le scene di pesca: vi sono bragozzi salvati miracolosamente nel mare in tempesta; i pescatori rimasti illesi nello scoppio di una mina pescata con le reti; i naufraghi conclusisi senza vittime; ma non mancano le prodigiose guarigioni da malattie ritenute infauste, il bambino precipitato dalla finestra e rimasto illeso, la donna finita sotto le ruote di una carrozza. Alcune di queste tavole ex voto, le “tolele”, come vengono chiamate dai chioggiotti, sono opera della stessa mano di pittori spontanei che godevano il favore della povera gente: talvolta erano gli stessi pittori che decoravano l’esterno delle barche o le vele ad avere l’incarico di dipingere l’ex voto. La pratica dell’ex voto, comunque, non è recente come sembra dalla data della più vecchia delle tavolette di San Domenico; si tratta di una tradizione secolare che ha creato un patrimonio, oggi, andato in gran parte perduto in tutto, infatti, sono ancora visibili 104 tavolette, 37 a San Domenico, 51 a San Giacomo e 16 in cattedrale.
Una interessante forma di arte minore è rappresentata dalle tolèle o tavolette votive, un tempo numerosissime, oggi ridotte a circa un centinaio di esemplari, conservate nelle chiese di S. Domenico, di S. Giacomo e della Cattedrale.
Commissionate ad artigiani, si caratterizzano per la popolarità del linguaggio e l’impianto narrativo. Riportano scene di “grazie ricevute” e raccontano una storia quotidiana di fatiche, di lavoro, di rischio.
Il loro valore costituisce non solo testimonianza di vita religiosa, ma anche documento storico sulle reali condizioni di vita di vari strati sociali soprattutto del secolo scorso.

I CAPITELLI
Presenti in numero consistente praticamente in ogni calle, sono frutto di un altro aspetto della religiosità e dell’arte popolare. Collocati nelle più oscure zone avevano anche la funzione di sopperire alla mancanza di pubblica illuminazione. Diventavano il punto di aggregazione della comunità della calle. I più interessanti ed antichi si trovano nell’angolo di Calle Fornetti, in Calle Vianelli, in calle Ravagnan e in Calle Donaggio.

LA PITTURA
“Corre fama che fin dai tempi lontani in cui era fiorente la scuola Veneziana, i nostri grandi maestri scegliessero tra i chioggiotti i loro modelli; ed invero certe maschie e nerborute figure del Tiziano, del Tintoretto ed altri ancora, farebbero credere volentieri alla verità di questa tradizione, che se può essere difficile provare con documenti, ha tuttavia la sua difesa nell’esistenza ancora perfetta del tipo, passato in tradizione”.
Le calli, i canali, il Corso del Popolo, la pescheria, i bragozzi, il Refugium Peccatorum, i ponti, i monumenti ed in particolare le attività lavorative sono sempre stati scenari ideali e fonti d’ispirazione per pittori locali, nazionali ed internazionali.
Tra i primi Rosalba Carriera, la più famosa e celebrata ritrattista della prima metà del 1700, nata per pura combinazione a Venezia, ma di famiglia e a tutti gli effetti chioggiotta; e Aristide Naccari, che ha illustrato, studiato e ricostruito i monumenti più tipici e caratteristici della città, ricevendo ambiti riconoscimenti nazionali. Ma la storia ci ricorda molti celebri e rinomati artisti stranieri e italiani che trovarono ispirazione nei nostri luoghi e tra la gente: nel secolo scorso Leopoldo Robert, Emanuele Stökler, celebre acquerellista, Ludovico Passini, Luigi Schön, Van Haanen, F. Ruben, Taylor, Guglielmo Ciardi, i fratelli Cecchini, Silvio Rota, Guglielmo Stella, Raffaele Mainella, Luigi Nono, Carloforti, Rosa Steffani, Fragiacomo, Maria Malmignati, Mosè Bianchi, Filippo Cercanon Bezzi, Bazzoli, Enrico Serra, Dall’Oca Bianca, Ettore Tito, Leonardo Bazzaro, E. Bosa, Pio Semeghini. Numerosi erano i giovani pittori, come ci racconta Carlo Bullo nel 1881, provenienti dalla Germania, Francia, Olanda, Inghilterra e perfino della lontana America, che per lunghi mesi trovarono motivi inesauribili di studio ed ispirazione per la loro opera.
Tra questi Dill Nishet, Falembert, Edmondo de Pury, William Lorin, Alberto P. Rjder, Otto Bacher, Olin Warner, Robert Ajton, Telbin, Holmes, Inghan, Wondroffe Bradlej.
Quadri di Chioggia si trovano in ogni parte del mondo e furono esposti nelle mostre internazionali di Vienna, di Parigi, di Venezia e conservati collezioni private e pubbliche. Difficile ne risulta una catalogazione.

Testi tratti da
CHIOGGIA ITINERARI STORICO-ARTISTICI 
di Gianni Scarpa e Sergio Ravagnan
e su concessione dell’APT – Chioggia

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